Sotto gli occhi di una parte di umanità del tutto anestetizzata ed ignava è in corso da più di 100 anni (Balfour) uno degli episodi di espoliazione di terre e sostituzione etnica, confluito più di recente in quello che risultano essere (a voler aprire gli occhi) una vera e propria pulizia etnica e un Genocidio (con la maiuscola) più clamorosi e visibili della storia dell’umanità. Più visibile di altri in quanto ai nostri giorni è praticamente impossibile far passere inosservate - nonostante il mutismo complice di servili mezzi di informazione, oramai definitivamente conclamatisi in mezzi di propaganda. Nell’ambito di questo processo genocidario capita da tempo di leggere una notizia che passa generalmente quale – quasi – nota di poco conto: la distruzione degli oliveti palestinesi. Per la matita di un giornalismo embedded (matita perché è più comodo correggere una frase se il padrone ce lo ordina) la distruzione di oliveti è in sostanza un fatto economico-agroalimentare secondario rispetto ad altre – fisiche, carnali – sofferenze.
Lo definirei l’atteggiamento dello stolto che guarda il dito e non la luna…
Mi ricorda quel che ebbi a scrivere nel mio saggio del 2011 a proposito dell’assalto sanguinario alla Jamahiriya Araba Libica allorché definii l’accaparramento delle risorse di quel Paese semplicemente un premio aggiuntivo, “grasso che cola”, ma niente a confronto col valore pressoché metafisico della negazione – a un “beduino” del deserto – del diritto di suggerire ad un mondo “più civile” una struttura sociale più sana della tanto decantata “democrazia rappresentativa”, quella per intenderci da distribuire a suon di bombe e napalm.
Cos’è allora l’olivo, cos’è l’olio, perché il senso delle devastazioni degli oliveti in Palestina è cosa altra dal mero danno all’agricoltura?
Prendiamoci un momento per riflettere, guardando più vicino a noi…
Le Porte dell’Anno
La stagione autunnale per l’Italia, ma estesamente per tutti i paesi che avrebbero il privilegio di godere dei benefici influssi di quello che fu il Mare Nostrum, è quella di una delle rare tradizioni ancestrali ad esser state mantenute, è il periodo della raccolta delle olive e della frangitura, il passaggio dal frutto a quel vero e proprio miracolo che è l’olio.
Miracolo perché anzitutto questa trasformazione avviene – dalla notte dei tempi – secondo una precisa liturgia che coinvolge la comunità e la riavvicina alla fase primordiale della socialità, rinnovandone le energie. Nel nostro caso dalla raccolta, che è processo corale coinvolgente molteplici soggetti, alla frangitura, alla trasformazione in pasta, alla pressatura e separazione dall’acqua attendono ulteriori addetti con gestualità precise, tramandate nei secoli, soltanto le attrezzature paiono aver subito “aggiornamenti”...
...in realtà gli aggiornamenti hanno pian piano trasformato quello che era davvero un rito sociale, di comunità, in una sorta di procedimento pressoché disanimato: il “progresso” fatto di velocità (fretta, costi) ha azzerato una serie di passaggi nel processo del frantoio, eliminando tutta una serie di “officianti” quella vera e propria liturgia fatta di persone, socialità, fettunte notturne intorno alla stufa, le leggendarie “storie a veglia”… vien da chiedersi se in realtà con le attrezzature moderne non si sia voluto – da parte di una mente davvero sopraffina ma perversa – cancellare con un ulteriore politicamente corretto colpo di spugna a base di norme igienico-sanitarie tutto quello che di sociale e culturale arcaico e fondante sottendeva al ritrovo autunnale nelle fattorie: basti il fatto che l’accesso al frantoio oggidì è consentito ai soli addetti alle macchine.
Niente di diverso da un’officina meccanica che ripari veicoli.
Guardiamo un po' al passato meno “ordinato” o – vedete voi – meno “ordinario”...
“Quando impararono a coltivare l’olivo e la vite, i popoli del Mediterraneo cominciarono ad uscire dalla barbarie”
Tucidide - V secolo a. C.
Ti cinsi attorno un serto dell'ulivo che dalla rupe germogliò d'Atène: se ancora c'è, non ha perduto il verde, ché divina è la pianta ond'esso crebbe.Euripide - IV secolo a. C.
Fin dal primo momento in cui compare in ogni civiltà, l'ulivo viene sentito quale sacro simbolo di pace, fecondità, purificazione, vittoria; simbolo che si ripete, con significativa continuità, in tutte le culture del Mediterraneo.
Per la Grecia classica, allorché il giudizio del consesso degli Dei ebbe a stabilire che su Poseidone prevalesse Atena, questa offrì alla città – che avrebbe preso il suo nome – l’ulivo. La tradizione vuole che le piante che oggi vegetano sull'Acropoli derivino appunto da quella prima pianta sacra, venerata nell'Eretteo.
Un albero d'ulivo verdeggiava in Atene dentro il tempio di Minerva e le sue fronde rappresentavano un premio ambitissimo: Milziade, il vincitore di Maratona, per quell’impresa appunto insisté per ottenere come unica ricompensa una corona di quei rami.
I Greci, che peraltro non usavano grandi sottigliezze in merito alle terre conquistate tagliandovi anche i boschi, decretarono la pena di morte per chi avesse reciso un albero d’ulivo, pubblico o privato
Nella Bibbia viene nominato 100 volte l’olivo e 140 volte l’olio, sia per quel che concerne gli usi quotidiani, sia per gli usi più strettamente sacri, difficile separare l’olivo dalla storia dell’umanità.
Gli utilizzi quotidiani dell’olio non ne riducono la rilevanza sacrale, che appare tale da simboleggiare direttamente la benedizione di Dio; nei testi sacri introduce alla festività, il bagliore delle lampade alimentate dall’olio d’oliva conferisce sacralità e autorevolezza a sacerdoti, profeti, re e ospiti importanti. Non a caso il termine “unto” è spesso sinonimo di “consacrato” e indica una persona, spesso d’alto lignaggio, prescelta per assolvere a un determinato compito di prestigio.
L'ulivo è pianta sacra alla fecondità.
Riferisce Erodoto che quando gli Dei, per vendicare l'oltraggio fatto a Dania ed Augeria, ridussero gli abitanti di Epidauro alla sterilità, questi, su consiglio degli oracoli, fecero arrivare appositamente da Atene tronchi d'ulivo con cui innalzarono statue alle due vergini; gli ateniesi consentirono il prelevamento del legno sacro, fonte di fertilità, a condizione che ogni anno venissero da Epidauro ad Atene delegati per celebrare sacrifici a Minerva, dea dell'ulivo.
Simbolo di pace, la fronda d'ulivo cinge con un serto il capo della dea della pace Irene, che tiene in mano un ramoscello della stessa pianta.
Nella mitologia, che è elemento per niente banale della civiltà mediterranea, l’olivo cingendogli il capo è inteso alla protezione dell’eroe allorché Ercole discende negli Inferi; sarebbe stato proprio il sudore dell’eroe a rendere più chiara la pagina inferiore delle foglie mentre i fumi dell'Ade ne scurivano quella superiore.
Per la cristianità la tradizione in merito la vicenda del Cristo vuole che dallo stesso ulivo nato sulla tomba di Adamo sia stata ricavata la croce del Redentore, non per niente anche
nella galassia Islamica l'ulivo costituisce nientemeno che l'asse del mondo ed è perfino immagine simbolica del Profeta (che Iddio l’Altissimo l’abbia in gloria e gli dia pace); la tradizione popolare islamica recita che su ogni sua foglia sta scritto uno dei 99 nomi di Dio.
“Allāh è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di una nicchia in cui si trova una lampada, la lampada è in un cristallo, il cristallo è come un astro brillante; il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale, né occidentale, il cui olio sembra illuminare, senza neppure essere toccato dal fuoco. Luce su luce. Allāh guida verso la Sua luce chi vuole Lui e propone agli uomini metafore. Allāh è Onnisciente.”
[Corano Sura An-Nūr (La Luce), 24:35]
Sotto il profilo del “quasi magico” ch’è proprio della tradizione berbera di alcune tra le più fiere popolazioni dell’Algeria mediterranea voglio ricordare quelle riportate in alcuni testi dall’antropologo Jean Servier, alla fine degli anni ‘50:
...in prossimità di Azeffoun, nella Cabilia marittima, vi è un santuario dedicato ad un olivo selvatico « tazebusht ihem-mamen » - l’olivo di coloro che ardono – come dire: gli Invisibili. In realtà sono due piante di olivo che abbracciano con le loro radici una roccia, vi ha luogo settimanalmente un pellegrinaggio dalla sera del giovedì al venerdì; vengono sacrificati dei montoni e la roccia viene aspersa d’olio ma sono proibiti l’offerta di uova e il sacrificio di pollame...
...l’albero è non semplicemente un supporto per il « rruh » - la frequenza spirituale – ma con esso costituisce una coppia a replica e completamento dell’altra coppia a sua volta formata dal « nefs » - l’energia vitale – e la pietra, si tratta di una entità dualista analoga a quella che è formata nell’essere umano dal « nefs » e « rruh » fusi insieme.
L’albero le cui radici circondano la roccia simboleggia la sacralità del connubio dell’entità fisica con quella spirituale...
...al douar Zekri (un agglomerato nella regione di Constantine, nell’Est algerino), in prossimità della roccia detta « tatrusht » - la roccia di Hamu figlio di Ali – si trova « tazebusht melkhiut » ovvero “l’olivo dai nodi”… le donne per ottenere una guarigione o sopratutto curare la sterilità attaccano ai rami frammenti dei propri foulard e fili delle fasce che portano alla vita, cedono così alla pianta i propri malanni, ponendosi sotto la protezione degli Invisibili (l’invocazione: ay salihin, ay assasseen - oh Santi, oh Guardiani); i bimbi disabili vengono fatti passare sotto l’arco di una radice, avendo cura di non scorticarla, allo scopo di nascere nuovamente dall’albero: questo gesto simula il parto…
Tratti da : Jean SERVIER
-Tradition et Civilisation Berbères – Les portes de l’année - 1962
-Dans l’Aurès sur les pas des rebelles – 1955
Ovviamente ci sono più livelli negli argomenti che ho voluto affrontare, e differenti parametri di gravità, ma l’argomento è lo stesso e il fine ultimo pure: trasferire ogni attenzione su aspetti funzionalistici e materiali, mentre la parte spirituale, quella della tradizione, in qualche caso anche della socialità debbono venire rimosse...
Traete da voi la conclusione, continuiamo a guardare il dito puntato verso il cielo o proviamo a spostare la nostra attenzione su qualcosa di un tantino più elevato?
Vi è mai venuto il sospetto che quelle – inesistenti, frutto di paranoie “complottiste” – menti sopraffine abbian tutto l’interesse che nelle nostre analisi ci si soffermi sugli aspetti “di pancia” come usa dire, piuttosto che rivolgerci a qualcosa di più complesso???
Intanto, grazie per questo articolo, NON DI POCO CONTO, e finalmente qualcuno ci esorta e ci sveglia a non rimanere anestesizzati da tutto cio' che ci propinano con luci abbaglianti,portandoci via a poco a poco tutto ciò che ci riguarda da molto vicino che pur facente parte di una cultura e anche della nostra, che sembra appartenere ad un passato,ma di un tema invece molto ATTUALE PER IL QUALE DOVREMMO SCENDERE NELLE PIAZZE PER DIFENDERE UN PATRIMONIO,CHE CI APPARTIENE..
RispondiEliminaBellissimo articolo che mette in luce la tendenza al nichilismo ormai, purtroppo insita nella decadenza della nostra cultura. Un piccolo appunto riferito al fatto che l’etimogia dell’appellativo “Cristo”, associato al nome di nostro Signore Gesù, vuole esso stesso significare “l’unto da Dio”, cioè il “Prescelto”. Consideriamo quindi che attraverso tale “Unzione”, Dio, addirittura consacra colui che prepone alla salvezza dell’umanità intera. E ritorniamo all’Olio come sostanza che oltre che alimento viene intesa come potentissima essenza sia propiziatoria che taumaturgica. Concordo assolutamente con tutto ciò che hai scritto.
RispondiEliminaGrande Emilio. Il sacro simbolo dell'ulivo come il sacro simbolo della spiga di grano. Simboli che accumunano tutta l'umanità, nessuno escluso
RispondiEliminaNoè attende... la colomba cerca un ramoscello di ulivo, ma non lo trova, perché gli ulivi scompaiono nella bufera che tutto vuol distruggere, annientare. Noè attende.... ma non c'è più colomba né ulivo, né pace da portare. Il diluvio resta. Lacrime di Dio che piange sull'umanità. Dove cercare? Dove trovare l'ulivo? Me ne vado pellegrino senza sosta per lanciare un ramoscello sulla distruzione... e arrivo su un monte... lì ci sono, gli ulivi! Belli! Testimoni di un dramma di sangue e di salvezza. Getsemani... un giardino... "frantoio di olio". Olio misto a Sangue, Sangue che redime. E cola olio e sangue da quel Corpo schiacciato, franto sotto i colpi di una umanità passata, presente, futura, che non perdona. Il sangue mi avvolge, mi libera... il mio volto ormai salvo, brilla di una gioia non di questo mondo... oltre...
RispondiEliminaGrazie Emilio, per quello che mi hai suscitato con il tuo articolo...
Il primo marzo del 1899 Yusuf Diva, intellettuale palestinese e ex-sindaco di Gerusalemme, scrive una lettera a Theodor Herzl per esprimergli l sua stima "come uomo, scrittore di talento e vero patriota ebreo" ma anche la forte preoccupazione per le conseguenze che sarebbero inevitabilmente derivate dall'attuazione del progetto sionista, ovvero la creazione di uno stato ebraico sovrano in un territorio occupato da altri, la maggior parte dei quali arabi palestinesi.
RispondiEliminaConcludeva la lettera con un appello accorato:" in nome di Dio, lasciate in pace la Palestina."
La risposta di Herzl si soffermò nella descrizione dei vantaggi che la terra (gli abitanti non venivano presi in considerazione)avrebbe tratto dalla presenza di gente ebraica: aveva già dato la definizione di colonialismo di insediamento.
Anche nei resoconti dei viaggiatori europei in quei luoghi, degli abitanti locali non si parlava, riproducendo "la prospettiva, l'ignoranza e i pregiudizi conditi dell'arroganza europea di chi ad essa è estranea"
(Palestina-Rashid Khalidi)
La Palestina, sotto l'impero ottomano ( salvo brevi interregni) fin dal 1516, alla fine dell'Ottocento contava circa mezzo milione di persone distribuite in 3 distretti: Nablus, Acri e Gerusalemme, corrispondenti attualmente a Israele e ai Territori occupati. Circa il 70% della popolazione era musulmana e viveva pacificamente con minoranze ebraiche e cristiane. Gli arabi di Palestina avevano il loro dialetto arabo e usanze proprie tra cui " abiti finemente ricamati che indicavano l'appartenenza a un villaggio o a una tribù"( Brevissima storia del conflitto tra Israele e Palestina- Ilan Pappé)
Con le riforme dell'Impero Ottomano ( la Costituzione del 1876, i movimenti dei Giovani Ottomani e dei Giovani Turchi) anche i Palestinesi sono coinvolti nel clima di rinnovamento e alcuni intellettuali poeti, giornalisti e scrittori emergono nel panorama culturale. Tra i tanti Ruhi al-Khalidi, Najib Nasser e Hajj Raghib al-khalidi, nonno del già citato autore di Palestina. Quest'ultimo istituisce nel 1899 una biblioteca che ospita oltre 1200 manoscritti in arabo, persiano e turco-ottomano, i più antichi risalenti al secolo XI.
Una parte della popolazione era dedita all'agricoltura mettendo a punto tecniche avanzatissime per l'estrazione dell'olio che venivano insegnate ai primi coloni ebrei nelle terre da loro acquistate ( o loro regalate) dall'Impero Britannico.( l'Impero Ottomano si era sempre rifiutato di venderle...)
Questo patrimonio culturale e identitario era descritto dai coloni insediativi ( ma non solo da essi, anche da parte della narrazione europea) come un niente, essendo i nativi rappresentati come selvaggi o primitivi, oppure ancora come nomadi non attaccati alla terra, nonostante numerosi villaggi esistessero da migliaia di anni. Quest'ultima menzogna è ciò che ha alimentato il motto : "Un popolo senza terra a una terra senza un popolo"
Ringrazio Emilio che con i suoi preziosi articoli ci fornisce l'opportunità di condividere alcune riflessioni.
Questi